Maternità surrogata. Una pratica che offende la dignità della donna?
Come messo in evidenza dalla Suprema Corte di Cassazione “l’ordinamento italiano non consente il ricorso ad operazioni di maternità surrogata” in quanto “tale pratica è vietata in assoluto, sotto minaccia di sanzione penale, dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6“.
La ratio della norma è quella di scoraggiare abusi e pratiche di sfruttamento della donna e l’insorgenza di incertezze sulla identità dei bambini. Se da una parte, infatti, la maternità surrogata ha visto le donne usate come strumento per funzioni riproduttive, con annullamento o sospensione dei loro diritti inalienabili dentro procedure contrattuali, dall’altro lato i nascituri sono esposti a una pratica che determina incertezze sul loro status.
Le ragioni del legislatore, che accolgono il timore comune, difettano però di una premessa fondamentale: la volontà dell’interessata. Una corretta regolamentazione del fenomeno non può esimersi dall’indagine della volontà della gestante non potendo escludere a priori che una donna scelga liberamente di potare avanti una gravidanza per conto di altri.
Al netto di ciò, quando i cittadini italiani si recano all’estero al fine di ottenere, nel rispetto della lex loci, ciò che in Italia è vietato cosa succede? Come va considerato quel figlio nato da gestione per conto di altri?
Il caso
Il caso che è recentemente stato portato all’attenzione pubblica prende le mosse dalla recente pronuncia n. 38162 del 30.12.2022 con la quale la Corte di Cassazione ha respinto la richiesta di trascrizione di un atto di nascita di un bambino nato in Canada e figlio di due uomini. Ovviamente solo uno dei due è genitore biologico, benché nel certificato canadese siano indicati entrambi i padri. Quando però il genitore di intenzione ha chiesto il riconoscimento del proprio status di padre anche nel certificato italiano si è visto opporre un rifiuto.
Figli nati da maternità surrogata: quod iuris?
Una volta che il bambino è nato si profila l’esigenza di proteggere il suo diritto fondamentale alla continuità del rapporto affettivo con i soggetti che hanno condiviso l’intenzione di farlo venire al mondo, senza che vi osti la modalità procreativa. Il bambino avrebbe certamente il diritto di essere allevato dalla madre che lo ha partorito; ma – come evidenziato dalla Suprema Corte – “è constatazione diffusa che la donna che porta una gravidanza solo per adempiere un obbligo contrattuale assunto verso i committenti spesso non ha alcuna reale intenzione di svolgere la funzione materna”.
In ragione di ciò, allorché il progetto procreativo sia seguito dall’effettiva accoglienza del minore nella comunità di affetti di entrambi i committenti che se ne prendono cura e lo crescono come un figlio, il suo migliore interesse può essere proprio quello del riconoscimento non solo sociale ma anche giuridico di tale legame.
D’altra parte, a ben vedere la mancata attribuzione di una veste giuridica a tale rapporto non si limiterebbe a “colpire” il genitore d’intenzione, sanzionandolo per aver scelto un metodo di procreazione che l’ordinamento italiano disapprova, ma finirebbe con il pregiudicare soprattutto il bambino, il cui diritto al rispetto della vita privata si troverebbe significativamente leso.
Un vuoto normativo e l’adozione in casi particolari
Il divieto di surrogazione di maternità, sancito dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, ha portato la giurisprudenza ad escludere che si possa trascrivere in Italia il provvedimento giudiziario con il quale l’autorità straniera ha riconosciuto il rapporto filiale con il genitore intenzionale del bambino nato da gestazione per conto di altri.
Data, però, la necessità di inquadrare giuridicamente il rapporto affettivo e sociale sussistente tra il minore e il genitore intenzionale, la Corte, nella sua composizione allargata, ha stabilito che a quest’ultimo “considerato padre a pieno titolo sin dalla nascita del bambino nel Paese in cui le pratiche procreative sono state poste in essere, l’ordinamento italiano offre la possibilità del ricorso all’adozione in casi particolari, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d): una soluzione che non opera fin dalla nascita, ma solo dal momento in cui l’adozione è pronunciata.”
Ciò implica, in concreto, che il padre genetico viene riconosciuto come tale fin da subito, mentre l’altro componente della coppia può ricorrere all’adozione in casi particolari.
I limiti dell’adozione in casi particolari
La Corte di Cassazione ha quindi individuato le modalità attraverso le quali l’ordinamento italiano consente di soddisfare l’interesse confliggente che viene ad essere compresso per effetto del diniego di riconoscimento della situazione costituita all’estero in violazione di un divieto posto per motivo di ordine pubblico.
L’adozione in casi particolari, tuttavia, non può essere la soluzione. I difetti dell’applicazione estensiva di questo istituto sono stati perfettamente elencati della sentenza n. 33 del 2021 della Corte costituzionale: la mancata parentela con il resto della famiglia (zia, nonni, fratelli), il necessario assenso del genitore biologico, per non parlare della pratica lunga e burocratica (in modo ingiustificabile e causa una discriminazione tra i nati in coppie di sesso diverso e quelli in coppie dello stesso sesso).
Bambini dai diritti sospesi in attesa di una legge
I bambini nati da maternità surrogata si trovano pertanto in una delicata situazione giacché non vedono pienamente riconosciuti i loro diritti di figli verso il genitore d’intenzione e i familiari di lui.
A tale situazione, tanto più intollerabile in quanto a farne le spese sono anzitutto i bambini, può porre rimedio solo legislatore introducendo una normativa volta a disciplinare adeguatamente il fenomeno operando un sapiente bilanciamento tra i diritti e gli interessi in gioco. Si constata, però, che ad oggi il legislatore non ha mai voluto prendere posizione immaginando al più un irrealizzabile reato universale che vieti in modo assoluto il ricorso alla maternità surrogata.
Studio Legale G.O.D. – Avvocati Lucca